Il Corpo e la Luce, è questa la tematica fondamentale che la scultrice Alessandra Aita ci presenta nella sua produzione artistica. Le sue sculture di legno, nate dall'assemblaggio di materiali di recupero ritrovati lungo i fiumi, sono figlie del tempo. Il legno logorato e consumato dagli elementi dà forma a splendide composizioni solenni ed enigmatiche. Questi corpi di legno consumati dal tempo hanno un fascino materico primordiale che ricorda la scultura primitiva. Corpi calcificati, ridotti a ossa, come fossili, esibiscono un esoscheletro rigido e coriaceo. Essi sono come cadaveri antichi recuperati da scavi archeologici. Ma dentro questi corpi avviene qualcosa di prezioso e incantevole, nella loro interiorità possiamo infatti osservare il dipanarsi del miracolo della vita. Le sculture sono infatti “animate” da una fonte di luce che riscalda e resuscita la morta materia per creare delle creature viventi. Il nucleo di luce mistica di queste sculture si irradia in modo magistrale, creando fra le fessure del legno effetti di chiaroscuro incisivi e cangianti. E' il gioco della materia che occulta lo spirito, e dello spirito-luce che, possente, travalica e trascende la materia per esprimersi liberamente e riversarsi nel mondo. Le lampade che Alessandra Aita costruisce con il medesimo procedimento sono lampade spirituali, che convogliano e accompagnano la profusione della luce spirituale nell'ambiente. Il tutto è pura meraviglia, lo spettacolo della vita che si manifesta attraverso e oltre la materia nel modo più intimo e commovente.
Ivan Buttazzoni, Filosofo e critico d'arte
L'arte di Alessandra Aita si fonda sul contrasto e l'accostamento fra corpo e anima, materia e spirito. I corpi di legno delle sue sculture sono come ruvide corazze corrose dal tempo che si aprono per lasciar trapelare la preziosa essenza vitale che da loro s'irradia in modo incandescente. La scultrice abbina magistralmente il legno, elemento arcaico, e la moderna tecnologia luministica, per creare opere d'incantevole splendore. La luce nelle sue sculture e nelle sue lampade assume il significato mistico di “luce spirituale”, scintilla divina che abita all'interno dei corpi. Corpi che lei costruisce con un lavoro paziente e antico, utilizzando materiali di recupero che vengono assemblati per raggiungere poetiche sembianze umane.
Gli uomini e le donne scolpiti da Alessandra Aita sono carichi di vita interiore, le fisionomie sono introspettive, le anatomie pervase da cocente dinamismo psichico, seppure bloccate nella loro statuaria fissità. Ma l'interiorità ricca di questi personaggi è talmente preponderante da spezzare e travalicare la forma e tradursi in luce, la più pura sublimazione della materia. Materia e Spirito, Corpo e Anima sono quindi messi in gioco in queste sculture ed utilizzati per produrre un contrappunto fatto di metafore e continue allusioni luministiche e chiaroscurali, al fine di tradurre in forma l'essenza e la bellezza interiore ed esteriore degli esseri umani.
Ivan Buttazzoni, Filosofo e critico d'arte
Il futuro dell’uomo in un piccolo elemento di natura
C’è chi, incontrandoli sul cammino, non se ne cura e li scavalca, li calcia o li calpesta e c’è chi, invece, ne coglie subito l’utilità per improvvisare un guado, una diga, per giocare con il cane o alimentare il camino. Anche Alessandra Aita osserva quei legnetti chiari e levigati che punteggiano i greti dei fiumi friulani o si accumulano lungo gli arenili nella stagione invernale, perché in essi scorge un valore estetico. Non scontati brandelli di legno, ma oggetti belli e complessi, tanto da farne materia prima delle sue opere.
Da qui inizia il percorso creativo: dalla scelta meditata di rami consunti, ridotti ormai a semplici cilindri irregolari, volumi essenziali e puliti, ma tutti diversi. Come una tessera per il mosaico, così il legnetto raccolto diventa il tassello per la composizione di una scultura: elemento unico e fondante che già in sé racchiude una storia di viaggio e trasformazione, dal distacco dalla pianta madre a un imprevedibile incaglio, a pochi passi dall’acqua.
Di quei frammenti lignei Alessandra Aita si serve per raccontare una storia più grande e attuale. Con un progetto in mente, precedentemente fissato in qualche schizzo, inizia la ricerca, proprio a pochi passi dall’acqua, dei pezzi giusti per aspetto e tonalità, lunghezza e movimento. Queste unità minime, selezionate d’istinto, vengono poi dall’artista accostate ed assemblate in studio con un lavoro paziente capace di costruire e sviluppare delle forme cave, la cui superficie ondulata è interrotta da piccole fessure, in una trama di pieni e vuoti.
Nasce così il ciclo delle grandi figure che non nascondono l’origine naturale (non c’è sovrapposizione di colore a confondere la materia, né qualche griglia interna di sostegno): il loro involucro, che fa anche da struttura, è dato dalla somma di quei legnetti lasciati come sono stati trovati. Queste sculture non temono per dimensioni un confronto con la realtà e il loro messaggio è affidato alla posizione del corpo più che alla trattazione dei dettagli anatomici. Modellate in modo sintetico e asciutto, le figure, spoglie, hanno proporzioni verosimili e sono descritte in una effettiva posa umana che oltre a evidenziare i profili curvi delle natiche, delle spalle, del seno o delle ginocchia, testimonia l’abilità dell’artista nel costituire, con l’unione di elementi rigidi, piani dall’andamento morbido che invitano ad una carezza.
Se all’apparenza, per la loro esecuzione, si direbbero uomini e donne figli della natura, nei loro atteggiamenti si mostrano incapaci a vivere in armonia con essa, se ne allontanano e sopravvivono in un isolamento che è anche distanza dai propri simili. Eppure, forse perché realizzate con quei legni rimasti integri dopo vari accidenti, queste figure anelano alla natura, a ripristinare un rapporto con il mondo circostante di cui paiono aver dimenticato le modalità di comunicazione. La denuncia che la comprensione e il contatto profondo tra gli uomini si sono fatti sempre più difficili, spesso offuscati dalla mediazione di strumenti tecnologici e canali virtuali, è prova della consapevolezza da parte dell’uomo del suo malessere interiore.
Ecco che le sculture di Alessandra Aita raccontano proprio questa volontà di rompere con atteggiamenti e consuetudini superficiali e comuni per avviare una riflessione che preannuncia la Rinascita(per citare il titolo di un’opera). Nell’animo dunque, anche nel momento dello sconforto, una luce rimane sempre accesa che viene vivificata dal legame con la natura, svelando la via di speranza per il futuro.
Giorgia Gemo, Storica dell'arte
Osservando la natura con empatia, Alessandra Aita sceglie e raccoglie i frammenti di legno dilavati dal tempo sulle rive dei fiumi. Sono questi frammenti i segni essenziali che compongono le sue opere, le tessere dei suoi mosaici, le cellule dei suoi organismi scultorei.
Le sue figure sono avvolte da una pelle vissuta, che comunica il senso del tempo e della relatività dell’individuo nella condizione umana. Sono organismi che non hanno una scadenza temporale, poiché sono composti con una materia che ha già terminato un ciclo di vita e che rinasce in una nuova forma. In questo ci sorprendono.
I frammenti di legno assemblati ci comunicano un senso di vita superficiale della materia, tale da trascendere la limitata condiziona umana, che invece viene evocata in maniera esplicita dalle sue figure antropomorfe. Dall'accostamento dei due termini, come nelle composizioni dadaiste, scaturisce un messaggio profondo che ci porta a riflettere sulla condizione umana, che è sempre contemporanea e non è legata ad una specifica epoca, presente, passata o futura.
Nella sua opera affiora la mistica del dualismo tra contenitore e contenuto, significante e significato, ed alla forma ruvida della materia, l’artista contrappone la luce immateriale, che riempie il calco dei suoi gusci antropomorfi e trasuda dai pori della pelle legnosa delle sue figure.
Luca Bocchini, Critico d'arte
Le figure di Alessandra Aita aspettano inquiete delle risposte, si protendono cercando un contatto, bramano una ragione che dia significato alla loro esistenza. Hanno già conosciuto lo smarrimento e l’abbandono e sanno, sulla loro pelle, cosa significa superare le intemperie della vita, eppure rimangono in attesa, pervase di speranza, di forza, di luce. Sono come quei pezzetti di legno che le compongono, sopravvissuti alle forze della natura e allo scorrere del tempo, levigati e consunti e, proprio per questo, pieni di dignità e bellezza. Una bellezza che Alessandra Aita è capace di scorgere mentre li raccoglie sul greto del Tagliamento, fiume lungo cui va a passeggiare fin da bambina. Gli studi e la formazione artistica le consentono poi di comporre, con quei semplici elementi, forme umane, tridimensionali, dai volumi proporzionati e dalla superficie ruvida, articolata nel succedersi di pieni e vuoti e nel gioco grafico delle linee.
D’altro lato le sue figure non potrebbero che concretizzarsi per mezzo di quegli umili legnetti, che da scarti, diventano materia prima sostenibile e preziosa nella sua varietà. In tale scelta è già contenuta parte della riflessione sull’uomo contemporaneo che è al centro dell’arte di Alessandra Aita: la difficoltà dei rapporti, la necessità di un dialogo con la propria coscienza, la volontà di rompere schemi imposti per ascoltare le emozioni, l’isolamento e, di contro, la potenza di un abbraccio, la scoperta delle proprie risorse, l’accettazione di sé e del prossimo, la ricerca di nuove prospettive. C’è una riposta fiducia nell’essere umano che allontana le sculture da una visione drammatica per collocarle in un’atmosfera sospesa, di riflessione, quasi spirituale. Un nuovo futuro si presenta all’uomo se sarà in grado di considerare con sguardo semplice il mondo che lo circonda, fino a stupirsi anche di quei lacerti di rami lasciati dalle correnti sulle rive dei fiumi.
Giorgia Gemo, Storica dell’arte
Con il bosco dentro le viscere
Arrivano per acqua i frammenti lignei che l’artista raccoglie e assembla per comporre le sue opere. Per acqua viaggia il bosco quando i suoi abitanti caduti di vecchiezza o di bufera, dai fiumi vengono spogliati della loro veste vegetale e affidati alla foce come nude essenze. Ma pur in frammenti e residui lontani dall’interezza il bosco resta, trasformando in altro ciclo la sua apparenza. Nascono opere, corpi, volti che l’artista, la giovane, geniale Alessandra Aita espone al castello di Padernello in una mostra, Humans, allestita negli affascinanti spazi delle antiche stanze della servitù, dove la luce proietta ombre donando plasticità alle figure morbidamente modellate dai relitti arborei. Un profilo femminile dagli aerei capelli fatti di radici si avvicina all’uomo librata nell’aria per un bacio in volo, una silhouette umana aprendo il petto con le mani rivela un bosco illuminato di sole al posto delle viscere, svelando l’essenza di questo progetto creativo di vibrante spiritualità: l’uomo è impastato di bosco, consanguineo della natura da cui si è colpevolmente separato per approdare, a spalle girate, a un raggelante comunicare virtuale.
Costanza Lunardi
A otto anni Alessandra camminava sul greto del Tagliamento, fiume friulano in cui passeggiava con la sua famiglia, e raccoglieva legnetti perché in quella materia abbandonata c’era qualcosa che la chiamava. Forse non scorgeva già i corpi, gli “umani” che avrebbe creato vent’anni dopo, ma la poesia, quel richiamo ancestrale a ciò che siamo, alla natura, alla materia che cerca una voce per raccontarsi, era già insita in quegli incontri infantili.
Dopo l’esposizione estiva a Palazzo Martinengo, Alessandra Aita porterà sedici opere di cui una inedita del suo progetto Humans al Castello di Padernello (inaugurazione sabato 7 settembre alle 18, fino al 31 ottobre). “La mostra - commenta l’artista - indaga il rapporto tra esseri umani, tra uomo e natura, i sentimenti, la distanza che provoca la tecnologia sull’umanità. Ogni opera racchiude un suo messaggio e pone domande, riflessioni, constatazioni”. Nata a San Daniele del Friuli nel 1983 Alessandra eredita dalla sua terra l’interesse per il legno come materia prescelta per le sue sculture e la natura che ama e frequenta fin dall’infanzia. Per creare i suoi lavori parte da un’ispirazione che trascrive in disegno. Poi esce e va a cercare il materiale adatto alla sua creazione perché ogni legno ha una sua storia e dentro quella storia c’è già un pezzo dell’opera. Le figure che crea sono uomini, donne, a volte solo volti, parti di corpi.
C’è una figura femminile che avanza verso il futuro e, nel procedere, il corpo si sfalda quasi a liberarsi dal superfluo, da ciò che la tormenta. C’è poi un uomo nel cui petto si apre un’immagine di un bosco luminoso “perché si riscopre essere parte della natura che in realtà è dentro di lui”. In mostra a Padernello ci sarà un inedito, una scultura con al centro l’uomo e il suo desiderio di onnipotenza. “Dove porta il desiderio scatenato dell’umanità contemporanea? Dove conducono il materialismo e il consumismo esacerbati?” Le domande da cui nasce quest’opera portano a riflettere sull’umanità contemporanea, dove l’equilibrio della natura, ormai distrutta e consumata, è solo un pallido ricordo. L’atteggiamento interiore che ne consegue è la disperazione – e quindi l’immagine dell’uomo che mette le sue mani sulla testa in quel gesto – dovuta alla separazione da un mondo perduto. Il mondo è perso?
Alessandra prova a raccontare chi siamo oggi, non senza speranza, se guardiamo a quella luce che esce dai corpi. “L’uomo è sempre più lontano dalla natura – commenta l’artista figlia del pittore Bruno Aita – ma noi ne facciamo parte e dovremmo riuscire a riavvicinarci”. L’artista ha appena terminato un’istallazione per Artinbosco, un percorso espositivo in un parco in Svizzera. A fine settembre sarà a Bergamo per una collettiva, poi si prenderà un momento di pausa. Il legno utilizzato dalla Aita è già di per sé racconto di un vissuto travagliato. “Sopravvissuti alle forze della natura e allo scorrere del tempo, levigati e consunti, e proprio per questo, pieni di dignità e bellezza – li descrive così la critica d’arte Giorgia Gemo e aggiunge - le sue figure non potrebbero che concretizzarsi per mezzo di quegli umili legnetti che, da scarti, diventano materia prima sostenibile e preziosa nella varietà”. Una speranza poetica c’è. “C’è una riposta fiducia nell’essere umano che allontana le sculture da una visione drammatica per collocarli in una dimensione quasi spirituale”.
Maria Zanolli
Fragilità che ci tiene insieme. Corpo, materia e relazione nelle sculture di Alessandra Aita
Umani
Che cosa significa essere umani? La domanda, che dà titolo al libro scritto con Ugo Morelli, non chiede una definizione, ma invoca un’esperienza. Essere umani non è uno stato, ma un processo incarnato: è essere corpo, sentire, relazionarsi. Non c’è umanità senza esposizione all’altro, senza una materia che ci costituisce e ci attraversa. In un’epoca che frammenta, accelera e smaterializza, l’arte può ancora offrirci uno spazio in cui tornare a sentire. A condizione, però, che sia un’arte capace di ascoltare la carne del mondo, di restituirci al respiro delle cose. Le sculture di Alessandra Aita mostrano l’umano come soglia viva e porosa, come relazione che prende forma nella materia. I suoi corpi non sono oggetti da contemplare, ma soggetti che ci interpellano. Lontani da ogni idealizzazione, portano sulla superficie il lavorio del tempo, dell’acqua, dell’aria. Sono figure che domandano, accolgono, si offrono: come fa ogni corpo quando ama, soffre, resiste. In questa soglia, tra interno ed esterno, tra natura e cultura, prende forma l’umano.
Ontologia incarnata e risonanza materiale
L’arte, come il corpo, è un dispositivo di senso prima che un oggetto estetico. Non è un semplice veicolo di rappresentazione simbolica, ma una forma di conoscenza incarnata che agisce sul nostro sistema percettivo, motorio ed emozionale. In particolare, la scultura, tra tutte le forme artistiche, mantiene una prossimità costitutiva alla dimensione tattile del reale: sollecita il nostro corpo a riconoscere, decifrare, risuonare. Lungi dall’essere contemplata da una distanza neutrale, l’opera ci interpella, ci attraversa, ci costringe a un confronto diretto con la nostra condizione corporea.
Le sculture di Alessandra Aita si inseriscono pienamente in questo quadro. Il legno – elemento centrale della sua ricerca artistica – non è una materia neutra, ma un corpo vivo, attraversato dalla storia. Ogni frammento che l'artista raccoglie lungo le rive del Tagliamento è già memoria: ha conosciuto la pressione dell'acqua, la corrosione del tempo, l'azione invisibile degli agenti atmosferici. La superficie del legno è una pelle che ha sentito, che ha registrato, che porta dentro di sé le tracce di una storia di vita non umana, eppure profondamente connessa con la nostra. La materialità della forma amplifica la componente tattile della visione. Percorrere con lo sguardo le venature che incidono le bioforme umane di Aita è un po’ come esplorarle toccandole con la mano.
Questa materia non viene forzata, ma ascoltata. Alessandra Aita segue le venature, asseconda le fratture, mette in risalto le crepe. In questo senso, il legno non è solo il mezzo, ma il co-autore dell'opera.
Vi è in questa pratica una forma di alleanza con il vivente non umano che interroga anche il nostro modo di stare al mondo. Siamo abituati a pensare la materia come passiva, disponibile, manipolabile. Ma la materia ha agentività, resiste, propone, suggerisce, partecipe della produzione di senso. Ogni superficie, ogni nodo ligneo è un'interfaccia tra umano e non umano. In questo senso si può parlare di una vera e propria sensibilità ecologica dell'opera, che non si limita a tematizzare la natura, ma la include attivamente come soggetto relazionale.
Questo modo di intendere la materia come interlocutrice partecipa di un'ontologia incarnata, che rifiuta la separazione cartesiana tra mente e corpo, tra soggetto e oggetto, tra interno ed esterno. Come ho argomentato in numerosi lavori, la soggettività è un evento emergente dal corpo in relazione: non un dato, ma un processo dinamico e situato. Il nostro essere-nel-mondo è sempre mediato da dispositivi corporei e sensoriali che non ci fanno percepire passivamente il mondo, ma ci spingono ad agire, a entrare in risonanza con esso. L’esperienza estetica è dunque una forma di attivazione incarnata.
Le sculture di Aita funzionano come veri e propri attivatori di questa dinamica. In esse, la forma non è mai autonoma, mai chiusa su sé stessa: è sempre eccedente, esposta, provvisoria. La loro incompiutezza ci costringe a prendere parte al senso. L'osservatore viene coinvolto in un processo di co-costruzione percettiva che implica un riconoscimento tacito: ciò che vedo mi tocca perché mi riguarda, mi implica. L'opera diventa il luogo in cui la carne del mondo incontra la nostra carne, in un processo di reciproca modulazione.
Il corpo come ferita, soglia, apertura
Le figure di Aita non propongono un modello idealizzato o armonico del corpo umano. Al contrario, ne mostrano la fragilità, la discontinuità. Si tratta di corpi spogli, talvolta mutilati, mai completamente definiti. Ma in questa sottrazione di forma si produce una potenza nuova: ogni mancanza diventa apertura, ogni fenditura una possibile relazione. In questo senso, le sculture parlano la lingua della carne: evocano un corpo vissuto, sofferente, vulnerabile, ma proprio per questo capace di connessione.
Questa concezione si radica in un'antropologia della vulnerabilità che rifiuta l'immagine dell'individuo autonomo e autosufficiente. La ferita, lungi dall'essere negata, viene esibita, accolta, valorizzata. Come accade anche nei processi neurobiologici, nel trauma è la perturbazione che rende possibile una riorganizzazione funzionale. Analogamente, nell'opera di Aita la forma si genera e si rigenera a partire dalla mancanza. Il corpo diventa così non solo luogo della sensibilità, ma spazio generativo. Ogni scultura è un laboratorio silenzioso di trasformazione.
Si tratta di un'estetica dell'incompiutezza: la forma non è data una volta per tutte, ma è sempre in divenire, in tensione, in attesa di essere completata dalla presenza dell'altro. In questo senso, la scultura non è mai autoreferenziale. Chi guarda viene chiamato in causa come partecipante sensibile. Le forme interrotte, le anatomie aperte, i profili mancanti sollecitano una risposta incarnata, che è insieme percettiva e affettiva. L'opera non si limita a mediare l'esperienza del mondo, ma genera una configurazione percettiva che trasforma lo spettatore in parte attiva dell'opera stessa. Qui entra in gioco la teoria della simulazione incarnata: non osserviamo semplicemente una forma, ma la "simuliamo" internamente, ne replichiamo i gesti, i vuoti, le tensioni. Lo sguardo si fa tatto, il tatto memoria, la memoria presenza.
La ferita, in questo contesto, non è un evento eccezionale, ma il fondamento stesso dell'esperienza. Come abbiamo sostenuto in Cosa significa essere umani? (2024), non si dà umanità senza esposizione. Il corpo non è solo un limite, ma una soglia: ci mette in contatto, ci rende permeabili. Questa vulnerabilità, lungi dall'essere debolezza, è la condizione di possibilità della relazione, della cura, della co-creazione. Le opere di Aita mettono in scena questo paradosso fondamentale: siamo interi proprio perché mancanti, capaci di sentire perché feriti, aperti perché incompleti.
Le sculture non raccontano una storia, ma mettono in scena una condizione: quella di chi vive incarnato, costitutivamente attraversato dal mondo. Un corpo che sa che la sua consistenza passa attraverso l'altro e che ogni apertura è anche un rischio: ma un rischio vitale.
L’intreccio relazionale e la forma condivisa dell’umano
Nel percorso scultoreo di Alessandra Aita la relazione non è un tema, ma una struttura profonda. Anche quando isolate, le sue figure non sono mai veramente sole: portano sul corpo i segni della prossimità, l’impronta di un contatto mancato, la tensione verso un’altra presenza. In alcuni casi, i corpi sembrano letteralmente intrecciati, come se il gesto dell’uno proseguisse nel corpo dell’altro, in un continuum che disattiva ogni rigidità identitaria. In altri, è proprio l’assenza dell’altro a generare un campo di forza: un braccio che si protende, un volto che si apre, un vuoto che chiede di essere abitato.
Questa logica relazionale – che non è mai illustrata, ma agita – rimanda a una concezione del Sé come evento emergente dalla co-esistenza e dalla co-percezione. Aita traduce plasticamente questa intuizione: nelle sue opere, il corpo è sempre già orientato verso l’altro, sempre già in tensione, in debito, in ascolto. La solitudine, quando c’è, non è mai isolamento, ma domanda.
L’osservatore, di fronte a un gesto trattenuto, a un equilibrio precario, a una tensione formale, attiva circuiti senso-motori che non si limitano a riconoscere, ma partecipano. È un vedere che è anche sentire, un percepire che è già essere coinvolti. Il cervello, come dimostrano gli studi sulla risonanza interpersonale, non distingue nettamente tra l’azione eseguita e quella osservata: in entrambi i casi, si attiva una rete di aree che codificano l’intenzionalità del gesto, la sua carica affettiva, la sua direzione.
Le sculture di Aita chiedono disponibilità percettiva. La loro forza risiede nella capacità di convocare il corpo dell’altro, di sollecitare una risposta silenziosa. Ogni figura è una domanda: mi vedi? mi tocchi? ti riguarda? In questo senso, l’opera diventa un dispositivo relazionale. Non si limita a rappresentare l’umano, ma lo fa accadere.
L’arte non ha solo il compito di rendere visibile un contenuto nascosto, ma di creare le condizioni per un’esperienza condivisa, incarnata, trasformativa. Le opere di Aita si inseriscono pienamente in questa cornice: non illustrano la relazione, la mettono in atto. Sono interfacce di empatia corporea.
Nel tempo della disconnessione algoritmica e dell’atomizzazione sociale, questi corpi intrecciati, mancanti, aperti, ci ricordano che essere umani significa essere-in-relazione. Non come stato, ma come gesto. Non come identità, ma come pratica. Le sculture di Aita sono, in questo senso, immagini incarnate del legame: frammenti di un noi possibile, da ricostruire attraverso la materia e il sentire.
Estetica, tempo e cura: la forma come esperienza del mondo
Il lavoro scultoreo di Alessandra Aita è attraversato da una temporalità densa, lenta, deliberatamente inattuale. In un’epoca di smaterializzazione dell’esperienza e velocità percettiva, la sua pratica restituisce centralità al tempo della mano, all’ascolto della materia, alla cura del gesto. Le sue opere non nascono da un progetto imposto alla materia, ma da un’interazione dialogica con essa. Il legno, elemento vivo e relazionale, viene accolto, interrogato. Ogni scultura si costituisce come risposta a una resistenza, a una memoria inscritta, a una storia non lineare.
Questa attenzione al tempo e alla materia non è semplice cifra stilistica, ma articolazione concreta di una postura onto-etica. Il senso dell’esperienza umana, infatti, non si dà solo nei simboli o nei concetti disincarnati, ma si costituisce prima di tutto nel rapporto sensibile con il mondo. L’estetica, in questa prospettiva, non è la dimensione accessoria dell’esperienza, bensì il suo fondamento relazionale e affettivo: il luogo in cui il mondo ci appare, ci tocca, ci modula. Le sculture di Aita materializzano questa possibilità, offrendo esperienze di presenza che si sottraggono alla logica della trasparenza e della codifica immediata. L’opera, qui, mette in condizione di sentire.
La lentezza del processo artistico, il rispetto per la materia, la volontà di non rimuovere le tracce dell’erosione, della rottura, della trasformazione: tutto questo partecipa di una forma di resistenza sensibile. È un’estetica che si oppone alla cultura dell’efficienza, alla performatività identitaria, alla spettacolarizzazione algoritmica. Ma non lo fa in nome di un ritorno alla natura o di una purezza perduta: lo fa come gesto critico incarnato. Come pratica di attenzione. Come gesto di cura.
Nel nostro libro Cosa significa essere umani?, abbiamo insistito sul fatto che il senso non è dato, ma emerge: non è qualcosa che l’individuo possiede, ma qualcosa che si genera nel contatto tra il corpo e il mondo. Questa generatività del senso, che ha un nucleo prelinguistico e percettivo, è ciò che l’arte – e in particolare l’arte plastica di Aita – riesce a evocare. Non per rappresentarlo, ma per metterlo in atto.
In questo senso, il suo lavoro si inscrive in un’estetica che è anche un’etica della presenza. Ogni opera diventa un campo percettivo in cui qualcosa si dà – non come oggetto da osservare, ma come intensità da attraversare. Si tratta di una forma di conoscenza non proposizionale, che coinvolge la postura, il ritmo, il respiro. Le figure, i vuoti, le curvature del legno ci costringono a ripensare il nostro stesso modo di percepire: rallentano lo sguardo, invitano alla prossimità, chiedono un’esposizione. Ci mettono in gioco.
HUMANS, in questo contesto, è un dispositivo per la trasformazione percettiva. È un luogo in cui il corpo è sollecitato a riapprendere il mondo, non attraverso concetti, ma attraverso forme. Non come spettatore, ma come presenza coinvolta. In un tempo che ci vuole astratti, veloci, disincarnati, queste opere ci riportano alla concretezza dell’essere-nel-mondo. E ci insegnano, silenziosamente, che il senso si genera dove c’è tempo, materia e cura.
Conclusione: La forma dell'umano come apertura incarnata
Che cosa significa essere umani? È la domanda che attraversa tutto il lavoro di Alessandra Aita, ed è la stessa che ha orientato la mia ricerca neuroscientifica e filosofica. Non si tratta di un quesito a cui si possa rispondere con una definizione univoca, quanto piuttosto di un campo di esperienza da esplorare, un orizzonte da abitare. Essere umani non è una condizione statica, né una semplice proprietà biologica o cognitiva. È una configurazione dinamica e relazionale, che si costituisce nella co-emergenza di corpo, materia, affetto e mondo. È un processo che prende forma nel gesto, nella percezione, nella relazione.
Le sculture di Aita danno corpo a questo processo. Non illustrano un’idea dell’umano: ne mettono in atto l’apertura. Ogni opera è un corpo che manca, una forma che accoglie, una soglia che espone. E proprio in questa esposizione – nella ferita, nella lacuna, nella memoria della materia – si manifesta la possibilità più profonda dell’umano: la capacità di essere toccati, di entrare in risonanza, di riconoscere il mondo come qualcosa che ci riguarda. Non vi è alcuna idealizzazione né alcuna nostalgia in queste figure: vi è, al contrario, un realismo radicale, che assume la vulnerabilità come fondamento dell’esperienza, e l’incompiutezza come condizione di senso.
Questa verità incarnata – che l’arte sa far emergere prima e meglio del pensiero concettuale – è anche una lezione per la nostra epoca. Un’epoca che tende a rimuovere il corpo, a digitalizzare le relazioni, a rendere opaca l’esperienza. In questo contesto, l’estetica radicale proposta da Aita si configura come una pratica di resistenza percettiva. Ci invita a tornare alla densità del reale, alla sua intensità tattile, alla sua opacità fertile. L’opera d’arte non ci spiega cosa siamo, ma ci espone a ciò che potremmo diventare: se solo accettassimo di abitare la nostra finitezza, di riconoscere l’altro non come specchio, ma come enigma.
Essere umani, in definitiva, non significa possedere un’essenza, ma sostenere una domanda. Significa abitare il proprio corpo come soglia, come ferita, come apertura. Le sculture di Alessandra Aita ci ricordano che l’arte può ancora accompagnarci in questo compito difficile ma necessario: custodire la vulnerabilità come fonte di conoscenza, la relazione come forma di verità, e la materia come alleata nella costruzione del senso. HUMANS, in questo senso, è più che una mostra: è un esercizio di presenza condivisa, un rito laico dell’incarnazione, un invito a ritrovare il mondo attraverso la forma fragile e resistente dell’umano.
Vittorio Gallese